giovedì 18 giugno 2009

Coda di volpe, un vitigno da valorizzare


La Campania non è solo Asprinio, Greco di Tufo, Fiano e Falanghina. La terra dei vulcani spenti è ancora in grado di presentare altri colpi. Parliamo del vitigno Coda di volpe che prende il nome dalla forma lunga e affusolata della pigna matura, oltre che dal colore generalmente carico del vino, simile, appunto, a quello del piccolo predatore terrore di quei contadini che ancora posseggono un pollaio. Si tratta di un vitigno autoctono antico, sconosciuto fuori dalla regione, ma molto diffuso in Irpinia nella zona di Taurasi, nel Sannio e sul Vesuvio, dove viene chiamato anche caprettone.
La storia della Coda di volpe non è misteriosa ma semplice: probabilmente di origine romana (è infatti citata da Plinio il Vecchio nel suo Historia Naturalis), nessuno sino al 1985 l’aveva etichettata in purezza perché veniva utilizzata soprattutto come uva da taglio per il Greco di Tufo e il Fiano. Ecco perché il blend classico in tutte le doc vede sempre i tre grandi vitigni bianchi abbinati in modo naturale alla coda di volpe, un po' come l'Aglianico è ammorbidito dal Piedirosso o dallo Sciascinoso. In questo modo i produttori dell’epoca risolvevano uno dei problemi più seri dei grandi vini irpini, l’elevato tasso di acidità dovuto al terreno vulcanico. In quegli anni in cui il vino campano era estraneo al circuito di qualità, pochissime le eccezioni, alcuni pioneri appassionati facevano esperimenti girando per le campagne: Leonardo Mustilli a Sant’Agata dei Goti puntava sulla Falanghina, vinificandola e imbottigliandola monovitigno, sempre nel Sannio, a Ponte, vicino Solopaca, nella valle coperta da chilometri e chilometri di vigneti che ha costituito una sorta di barriera corallina contro l’invasione del vino pugliese, Domenico Ocone era con Luigi Pastore alla ricerca di nuovi vitigni. Fu così che scoprirono le potenzialità della Coda di volpe ricorrendo a una potatura delle vigne per ottenere una bassa resa per ettaro, vinificazione in purezza con pressatura soffice usando tecnologia moderna, affinamento in bottiglia, e anticipando la vendemmia a metà settembre per ottenere un vino con maggiore acidità. Nacque così un vino ottimo, che ha davvero poco da invidiare agli altri bianchi campani, di buona produzione alcolica, dal colore giallo dorato, con un leggero aroma gradevole, non molto intenso. Nel primo anno di vita si rivela leggermente dolce; ma, invecchiato, assume un sapore asciutto e non molto ricco di corpo.
Agronomicamente la coda di volpe è un vitigno poco vigoroso con produzioni non eccessive, a maturazione raggiunge elevati livelli in zuccheri mentre l'acidità totale è piuttosto bassa: proprio per questo ci sono sempre stati molti dubbi sull'opportunità dell'uso del legno e la stragrande maggioranza dei produttori si è orientata per l'acciaio.
Alcuni, come Luigi Moio, pensa che si possa fare un grande vino bianco da invecchiamento e ha voluto la vinificazione in legno ottenendo davvero un buon risultato.
La zona del Taburno, su cui insistono due doc, Sannio e, appunto, Taburno, sembra essere particolarmente vocata per questo vitigno e, in generale, per le uve a bacca bianca oltre che per l'aglianico. L'esposizione a Mezzogiorno l'altezza, la ventilazione e l'escursione termica, il terreno vulcanico e argilloso costituiscono condizioni ideali per la produzione di questo vino.

Da aggiungere infine, la sua straordinaria faciliità di abbinamento a tutti i piatti della cucina moderna dell'alta ristorazione della Penisola Sorrentina. Si abbina così ai sushi di Vico Equense come alle tapas di Cetara con la colatura di alici, ma anche alle paste con i piselli, i fagioli, le zucchine, le patate, i ceci, le lenticchie della tradizione contadina meridionale adottata dalla gastronomia classica partenopea.

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